Intervento alla commemorazione ufficiale dei caduti di Porzûs
7 febbraio 2016
Prof. Massimo de Leonardis
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Autorità, Membri della Osoppo e delle Associazioni combattentistiche e d’arma, congiunti dei caduti, Signore e Signori,
Sento fortemente l’onore e la responsabilità di commemorare i diciassette caduti osovani vittime dell’eccidio che ebbe il suo epicentro alle malghe di Porzûs.
I fatti furono presto accertati dalla giustizia, ma una cortina di omertà politica e storiografica o peggio di mistificazioni ha avvolto per decenni la vicenda. Gli storici onesti li hanno raccontati a partire dagli anni novanta, ma altri studiosi hanno continuato a seminare ambiguità e reticenze. Lo Stato italiano ha mostrato anch’esso a lungo l’incapacità di rendere il giusto omaggio ai caduti; la motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria decretata al Capitano del Regio Esercito Francesco De Gregori spiccava per ambigua reticenza; Mario Toffanin, massimo responsabile mai pentito di quello e di altri crimini fu graziato nel 1978 dal Presidente della repubblica Pertini e continuò a percepire fino alla fine la pensione italiana. Il Presidente Cossiga cancellò nel 1992 una visita ufficiale, compiendone poi una in forma privata la settimana successiva. Comunque questa sua dichiarazione resta esemplare per la forza e la chiarezza della condanna dell’eccidio: «Onore alla memoria dei partigiani della brigata Osoppo, trucidati per odio politico e tradimento della Patria allo straniero da gappisti che avevano usurpato il nome di partigiani, infangato il nome di Garibaldi e della terra sacra del Natisone con cui si chiamava la loro divisione, agli ordini del nefasto IX Corpo jugoslavo di cui ricordiamo le vittime infoibate a Trieste e le centinaia di persone scomparse a Gorizia». Dopo aver letto i nomi dei trucidati, aggiunse: «Io avrei voluto che questi nomi fossero le pietre per seppellire il passato. Questi nomi sono pietre che lapidano chi offende ancora questi valorosi combattenti per la libertà».
Come nel caso delle foibe e del massacro di Katyn, la caduta dei regimi comunisti ha portato ad una nuova fase politico-storiografica. Nel 2001 l’ex commissario politico della formazione Garibaldi-Natisone, Giovanni Padoan, ebbe il coraggio di definire l’eccidio «un crimine di guerra che esclude ogni giustificazione» e riconobbe le responsabilità della Federazione di Udine del Partito Comunista Italiano e nel 2012 il Presidente della repubblica Napolitano venne in visita a Faedis. La revisione degli atteggiamenti è però ancora parziale e ben lungi dall’essere da tutti accettata. Come altri film scomodi, Katyn, la Masseria delle Allodole, 11 settembre 1683, Porzûs è stato ad esempio contestato e boicottato.
Doveroso e necessario è quindi ricordare. Sarà credo sempre impossibile avere di questi fatti una cosiddetta “memoria condivisa”, e forse non è un male, perché tale espressione spesso equivale a “politicamente corretta” e quindi in parte falsa, mentre, come ha scritto Jacques Crétineau-Joly, «la verità è l’unica carità concessa alla storia».
L’eccidio di Porzûs fu l’episodio in Italia di uno scontro che ebbe manifestazioni ben più ampie in altri Paesi d’Europa, durante la Seconda guerra mondiale, nella quale l’Unione Sovietica fu dal 1939 al 1941 alleata di fatto con la Germania nazista, con la quale anche dopo l’operazione Barbarossa, esplorò possibilità di intese, come documenta anche il recente volume di Eugenio Di Rienzo ed Emilio Gin. In Jugoslavia è stato osservato che furono uccisi più partigiani da altri partigiani di diverso colore che dagli occupanti nazi-fascisti. In Polonia, nell’agosto-settembre 1944, i comunisti completarono il lavoro sporco iniziato a Katyn negando ogni aiuto all’insurrezione di Varsavia della Armia Krajowa, fedele al governo in esilio a Londra. In Polonia la lotta fratricida per eliminare i partigiani non comunisti fu istigata dall’Unione Sovietica per togliere ogni ostacolo alla conquista del potere. Già in Jugoslavia al fattore ideologico-politico si affiancò quello etnico, essendo i partigiani di Mihailović prevalentemente serbi e quelli comunisti di Tito croati e sloveni.
Nel 1943-45, alla frontiera orientale dell’Italia i fattori nazionali e politico-ideologici si sommarono, nello «scontro tra l’italianità, il pangermanesimo ed il panslavismo», mentre si profilava il conflitto della fase immediatamente successiva, quello politico, ideologico, diplomatico e militare tra Occidente e comunismo: la Guerra fredda. Non a caso Churchill indicò in Trieste il terminale meridionale della cortina di ferro.
Nel 1953 Luigi Longo, già comandante generale delle “Brigate” Garibaldi e futuro Segretario generale del Partito comunista italiano, con singolare spudoratezza rivendicò ai comunisti italiani di aver difeso «per primi e da soli i diritti nazionali di quelle nostre popolazioni». La verità è ben altra: nel 1943-1945 e fino al 1948 i comunisti italiani furono schierati dalla parte di Tito. Fin dal settembre 1944, i comunisti di Trieste e della Venezia Giulia sostennero apertamente l’annessione di Trieste alla Jugoslavia come VII Repubblica autonoma, una soluzione in un primo tempo accettata anche dalla direzione del Partito Comunista Italiano. Lo stesso Togliatti, se non avallò del tutto la linea dei comunisti triestini, che si costituirono poi in una federazione autonoma, nondimeno nelle istruzioni inviate a Vincenzo Bianco il 19 ottobre 1944 scriveva: «Noi consideriamo come un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e che in tutti i modi dobbiamo favorire, la occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito».
I massacri di italiani del settembre-ottobre 1943 e del maggio-giugno 1945 rispondevano alla duplice e coincidente esigenza di eliminare elementi non comunisti e di realizzare una “pulizia etnica”. Le istruzioni di Togliatti del 19 ottobre 1944 ebbero il loro logico sviluppo nel suo appello del 30 aprile 1945, a nome della direzione del Partito Comunista Italiano, ai triestini: «Il vostro dovere è di accogliere le truppe di Tito come truppe liberatrici».
Quello di Porzûs fu un eccidio annunciato. Gli ufficiali di collegamento anglo-americani riferirono ampiamente sul peggioramento dei rapporti tra le formazioni partigiane in zona e sugli episodi intimidatori da parte dei partigiani sloveni. In particolare all’inizio di febbraio 1945 i capitani britannici Taylor e Godwin segnalarono vari casi di disarmo dei partigiani osovani da parte degli sloveni e il maggiore Macpherson riferì diversi misfatti degli sloveni: avevano fatto prigioniere pattuglie delle Osoppo con l’accusa di fascismo, minacciando di eliminare anche la missione britannica se si fosse opposta, avevano circondato il quartiere generale osovano e a fatica egli li aveva convinti a ritirarsi, avevano poi disseminato segnali indicanti la sede del comando delle Osoppo ad uso dei cosacchi inquadrati dai tedeschi.
La notizia che si preparava un ulteriore attacco contro il Quartiere Generale delle Osoppo pervenne al Foreign Office, che ordinò a Macpherson di non interferire, cercando però un chiarimento con il più vicino comandante sloveno, mentre il brigadiere generale Fitzroy Maclean fu incaricato di protestare con Tito. Le direttive alleate miravano ad evitare il proprio coinvolgimento nei rapporti tra gli schieramenti partigiani, ad impedire un fronte anti-jugoslavo ed a favorire un’intesa con le forze partigiane di Tito riguardo ai problemi della Venezia Giulia. Un atteggiamento irrealistico e di fatto nocivo agli interessi dell’Italia. Troppo tardi a Londra e a Washington si aprirono gli occhi sulla figura di Tito; furono richiusi poi dopo il 1948.
L’eccidio di Porzûs ci ricorda che la Resistenza fu fatta da democratici antifascisti e anticomunisti, in maggioranza, e da una minoranza che voleva instaurare un altro totalitarismo. Tra i primi, i soli a potersi veramente definire volontari della libertà, molti furono i militari fedeli al giuramento prestato, come il Capitano Francesco De Gregori.