INTERVENTO DEL DOTT. CESARE MARZONA PRESIDENTE APO
Il 25 aprile 1945 e i giorni immediatamente successivi ci ricordano la fine degli scontri a fuoco, all'arma bianca e il sordo boato dei bombardieri la cui scia bianca lasciata oscurava il sole e ci ricordano la fine della violenza e del terrore e l'ingresso dignitoso nel mondo dei popoli liberi.
Abbiamo vissuto quei giorni in un clima di incredibile euforia, era come se tornassimo alla vita, tornavamo nelle nostre case.
Terminava la guerra che non era determinata dalla volontà di conquista territoriale o dalla dimostrazione di una forza superiore ma era determinata contrariamente al passato da una sfida mortale fra ideologie che si reggevano su norme costituzionali e conseguenti diritti fondamentali opposte fra loro.
Da quella sfida mortale è uscita sconfitta l'ideologia nazifascista che trovava le sue radici nel famoso Mein kampf del baffuto Adolfo.
Non è stata una sconfìtta ma una disfatta che ha trascinato con sé i resti di quello che era stato il più gigantesco degli eserciti secondo solo alle leggendarie legioni romane e soprattutto trascinando nell'oblio la fede di un popolo che aveva creduto fino in fondo, cresciuto com'era al culto della grandezza e della superiorità della razza, il noto a tutti Deutschland uber alles ed il Got mit uns nelle cinghie delle cinture dei soldati.
Sparivano immediatamente i simboli che sono l'anima delle ideologie, sparivano le croci uncinate e le famigerate doppie esse che apposte sul bavero della giacca trasformavano il soldato pronto alla guerra in un carnefice pronto ai massacri.
Quella disfatta trascinava con se anche i simboli del fascismo presuntuosi e malsopportati che pretendevano rispetto senza meritarlo dopo un letargo delle coscienze durato 20 anni.
Era la fine di un terrificante quinquennio e i 4 grandi potevano sedersi attorno ad un tavolo a Yalta per decidere le sorti del mondo potendo fare un bilancio di quella tragedia, e accorgersi che i danni subiti dagli sconfitti erano simili a quelli subiti dai vincitori.
Era allora portatore di benessere e di felicità insistere al ricorso alle armi per eliminare le inevitabili, incallite differenze fra loro esistenti quando lo scopo finale di rutti era quello di ottenere maggior benessere per il proprio popolo?
Se si voleva togliere spazio alle guerre era necessario come insegna Norberto Bobbio ricorrere all'etica del dialogo, all'incontro amichevole fra persone intelligenti e riconoscere così il reciproco vantaggio.
Forse a questo atteggiamento di pacifica collaborazione i 4 grandi erano spinti dal terrore di Hiroshima.
A Hiroshima era stata lanciata la prima bomba atomica che aveva letteralmente trasformato la prospettiva della storia umana, aveva tolto al tempo la certezza dell'avvenire, l'uomo poteva autodistruggersi come avrebbe potuto far sparire dalla terra ogni segno di vita.
Tornavano di attualità le lugubri previsioni di Friedrich Nietzsche e di Francis Fukuiama dalla vita alla morte, dalla morte al nulla.
In questo clima di morte e di distruzione da Nagasaki a Dresda, da Dresda a Montecassino spuntava un piccolo segno luminoso era la luce del mondo dei popoli liberi.
Noi allora avevamo 20 anni, eravamo pieni di entusiasmo e di sacro furore forse un pò romantico nel ricordo dei nostri avi che avevano partecipato alle guerre del risorgimento, come potevamo noi rifiutare l'invito alla libertà ? e come potevamo non unire le nostre forze per combattere chi ci impediva di accettare quell'invito, chi ci torturava, chi ci imprigionava, chi ci deportava, chi ci fucilava, chi ci chiamava banditi, chi aveva riempito le strade di cartelli con la scritta Achtung Banditen credendo di farci dimenticare gli ideali per i quali combattevamo e ritenevano così di liberarsi dalla inafferrabile gramigna del partigiano ? no, noi non eravamo banditi eravamo ribelli dell'ordine imposto con le armi, eravamo ribelli per amore degli ideali come è detto nella preghiera che Teresio Olivelli ha scritto nel campo di Buchenvald.
Ogni tanto vado in via Spalato e mi fermo al muro dì cinta di quel carcere dove è collocata la lapide che porta incisi i nomi degli ultimi fucilati compiendo un'azione di ferocia e di inutilità inaudite per l’imminenza della fine della guerra.
Leggo uno a uno quei nomi, rivedo l'espressione dei loro volti e ricordo la loro cosciente purezza.
Coloricchio, Pascuttini, Mario Modotti il grande “Tribuno”, Mario Foschiani “Guerra” e tutti gli altri non c'è il mio nome, non c'è eppure sono stato condannato a morte con loro dallo stesso tribunale speciale dell’Adriatische kustenland e da tre lugubri personaggio venuti dalla Germania per condannarci, non hanno mai parlato fino alla fine di quel processo di apparente giustizia, solo alla fine hanno parlato per pronunziare la scontata sentenza "tutti condannati a morte mediante fucilazione".
E fra i condannati ho vissuto interminabili notti e giorni fra la sentenza e l'esecuzione nell'attesa spasmodica dell'ultima chiamata.
Quello stanzone era stato il nostro mondo non c'erano cattiveria, falsità, tradimenti non esistevano scadenza, obblighi, impegni, ci consolavamo a vicenda, solo l'esecuzione ci avrebbe dato la libertà.
E adesso? loro sono al di là, sono parte essenziale della storia della resistenza, uno per uno sono diventati simboli, icone della guerra di liberazione mentre io trascino stancamente i miei passi senza lasciare traccia del passaggio, simili al battito d'ali di una colomba come dice Konrad Lorenz.
L'aver vissuto a lungo con loro, conosciuto la loro consapevolezza di fronte a un oggi senza domani e conoscendo a fondo il loro animo e il loro pensiero credo di potermi legittimamente appellare al ricordo del loro sacrificio per superare indenne la miseria del momento in cui vivo e di suggerire a chi ci governa di utilizzare il potere che abbiamo a loro conferito in nome dei principi ed ideali la cui difesa ha richiesto quel sacrifìcio in nome della pace, della libertà, della giustizia.
Udine, 25 aprile 2014
Dott. Cesare Marzona