CERIMONIA DI COMMEMORAZIONE ECCIDIO DELLE MALGHE DI PORZUS
INTERVENTO PROF. ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
Autorità, Signore e Signori, ma soprattutto voi, reduci della Brigata Osoppo, e voi
congiunti e amici di coloro che sotto la sua bandiera combatterono e morirono,
siamo qui riuniti ancora una volta a ricordare quel pugno di partigiani massacrato lassù, alle malghe di Porzus: a ricordare l’ora più buia del tradimento e del sacrificio. Siamo riuniti a distanza di tanti anni da quel lontano 7 febbraio 1945: ma quando ormai tutte le parole sembrano essere state dette, e le condanne - quelle almeno che spettano agli uomini – anch’esse ormai tutte pronunciate ed espiate. Ha dunque, questo nostro essere qui, solo il valore pur prezioso della memoria? di un omaggio pietoso a coloro che tanto tempo fa sono morti per una causa degna?
No, non credo. Quella morte continua a contenere un insegnamento e un monito, entrambi importanti per la comprensione del nostro passato e insieme del nostro presente.
Da che cosa essa fu provocata lo sapete bene. L’assassinio di “Bolla” e dei suoi 20 compagni scaturì dallo scontro tra due diverse concezioni della lotta contro l’occupazione nazista e il regime fascista suo complice: due concezioni della lotta di liberazione che qui, sul confine orientale d’Italia, s’incontrarono, in certa misura riuscirono pure a collaborare, ma alla fine si scontrarono duramente. Da un lato la concezione che animava la Brigata Osoppo, ispirata agli ideali della democrazia senza aggettivi e alla difesa dell’integrità territoriale della patria italiana, dall’altra una concezione che interpretava la liberazione dal nazi-fascismo come premessa per la vittoria di un regime di tipo comunista; una concezione che all’idea della nazione opponeva l’utopia dell’internazionalismo proletario. Un internazionalismo, però, che qui, in queste contrade di confine, in realtà a mala pena era in grado di mascherare l’aspro nazionalismo slavo che premeva da ogni parte, forte del prestigio e della forza della Resistenza jugoslava agli ordini di Tito. A Porzus dei partigiani che si dicevano comunisti uccisero dei partigiani cattolici, liberali, azionisti. Dei partigiani che riponevano le loro speranze nell’espansione del soviettismo internazionalista uccisero dei partigiani che invece volevano restare italiani. Come ha ricordato anche il Presidente Napolitano quando ha visitato questi luoghi, nella sua brutale schematicità fu questo ciò che accadde.
C’erano molte cose nel voler restare italiani di quelli dell’Osoppo: che era poi un voler semplicemente restare se stessi. C’era la memoria dei padri, ultimi a cessare di combattere contro gli austriaci nel 1848, ottenendone l’onore delle armi; ma c’era soprattutto il sentimento di coesione, di appartenenza, che la saldissima tradizione comunitaria delle genti friulane conosce ancora oggi come poche; un senso di coesione e di appartenenza cementato, nel caso degli uomini, dal trovarsi insieme nelle formazioni alpine: le uniche, si sa, reclutate su base locale. Come dimenticare infatti il contributo decisivo che gli alpini della Julia ed i loro cappellani , e con loro i militari di tutti gli altri reparti reduci dalla catastrofe della Grecia, dal logorante presidio dei Balcani, dall’inferno della Russia, diedero alla nascita e alle imprese della Osoppo? Ecco una cosa troppo spesso dimenticata che la sua vicenda ci ricorda: la parte così rilevante che i soldati, i sottufficiali e gli ufficiali del Regio Esercito ebbero nella Resistenza italiana. Dal Monviso al Tagliamento, da Roma alle valli del Piemonte, infatti, furono spesso proprio gli uomini con le stellette i primi a opporsi ai tedeschi e a prendere la via della montagna: anche in seguito costituendo il nucleo forte e più volte il comando stesso di tante formazioni partigiane.
Quanto accaduto a Porzus ci parla di quanto fosse difficile in quel biennio terribile del ’43-45, e qui soprattutto, mettere l’Italia al primo posto, restarle fedele. Ci parla più in generale di quella divisione che, sebbene in misura meno drammatica che in Friuli, ha caratterizzato l’intero movimento di Resistenza del nostro Paese, e della quale furono vittime innanzi tutto i militari, finendo per esserne cancellati. Un movimento, la Resistenza, attraversato dalle profonde diversità partitiche e ideologiche dei suoi membri, che proprio per questo, e a dispetto di ogni migliore intenzione, non riuscì a rappresentare un momento realmente unitario di riscatto collettivo del Paese. Non riuscì ad essere sentito in tal modo dall’insieme degli italiani; e quindi non riuscì a riunirli effettivamente in una nuova e feconda prospettiva nazionale.
Tutto ciò ha lasciato il segno. Ha fatto sì che la Repubblica nascesse dalla nazione, la democrazia lontano dalla Patria. Fin dall’inizio il nuovo Stato, il nuovo regime politico, hanno dovuto quindi fare i conti con una malcerta legittimazione. All’origine di tale deficit di legittimazione vi era, tra le altre cose, proprio quella Resistenza sulla quale il nuovo Stato e il nuovo regime politico dicevano di fondarsi, ma il cui anelito patriottico, il cui significato unitario, in realtà, si erano trovati ad essere vistosamente indeboliti - a volte come qui in Friuli addirittura vanificati - dal ruolo divisivo dei partiti e dei loro numerosi, profondi, contrasti.
Questo rapporto difficile dell’Italia democratica con la dimensione della nazione -che risale certo all’uso stravolto e di parte fattone dal fascismo e alla sconfitta militare, ma anche alle difficoltà della Resistenza, di cui ho detto - l’avvertiamo mi pare tuttora. Quando sempre più spesso, di fronte alle impostazioni sovranazionali di tinta europeista, agli inviti, alle disposizioni e agli interventi più o meno perentori provenienti da Bruxelles o d’altrove, avvertiamo la fragilità, la reticenza, talvolta ahimè l’assenza, di troppe nostre risposte. Di una evidente nostra difficoltà a parlare il linguaggio degli interessi nazionali.
Sono difficoltà, fragilità e reticenze legate alla dimensione nazionale che vengono da lontano: per l’appunto dai giorni che oggi ricordiamo, dalle aspre contraddizioni che li caratterizzarono. Penso alla motivazione della medaglia d’oro al valor militare concessa al vostro comandante, al capitano De Gregori, il primo ad essere ucciso quel 7 febbraio. Motivazione la cui parte finale così recita: “In condizioni particolarmente difficili di tempo e di ambiente, fermo, deciso e coraggioso riaffermava l’italianità della regione e la intangibilità dei confini della Patria. Cadeva vittima della tragica situazione creata dal fascismo ed alimentata dall’oppressore tedesco in quel martoriato lembo d’Italia dove il comune spirito patriottico non sempre riusciva a fondere in un sol blocco le forze della Resistenza”. Il fascismo, certo. Il tedesco oppressore certo. Ma proprio di nessun altro cadde vittima “Bolla”? E quale “comune spirito patriottico” animava quelli che allora preferirono passare agli ordini dei titini?
Ma ormai, e non da oggi, è il tempo della storia. E nel momento in cui aiuta a ricordare la verità la storia insegna anche a capire, a capire anche l’errore dei colpevoli - non le sue ragioni, sia chiaro, ma i suoi motivi, il suo senso profondo, per così dire la sua “necessità”. E così essa ci aiuta a depurare il nostro ricordo di ogni sentimento di odio e di animosità.
Il tempo della storia, della verità e del ricordo può allora diventare anche il tempo della poesia. Nell’Italia degli anni ’60, nell’Italia gaudente del “miracolo” che per tanti aspetti è ancora la nostra, a Pier Paolo Pasolini sembrava di scorgere un giorno venire giù dalle montagne a visitare il Paese per cui aveva dato la vita, frammisto a un “esercito di giovani morti”, suo fratello Guido, il partigiano Ermes, trucidato alle malghe di Porzus. E poi ad un tratto com’era venuto lo vedeva dileguarsi insieme ai suoi compagni:
Se ne vanno….Aiuto, ci voltano le schiene, / le loro schiene sotto le eroiche giacche / di mendicanti, di disertori…Sono così serene / le montagne verso cui ritornano, batte / così lieve il mitra sul loro fianco, al passo / ch’è quello di quando cala il sole, sulle intatte / forma della vita – tornata uguale nel basso / e nel profondo! Aiuto, se ne vanno! Tornano al loro / silente mondo di Marzabotto o di via Tasso…/ Con la testa spaccata, la nostra testa, tesoro / umile della famiglia, grossa testa di secondogenito, / mio fratello riprende il sanguinoso sonno, solo / tra le foglie secche, nei sereni / eremi di un bosco delle prealpi, perso nell’oro / della pace d’una interminabile Domenica /… ………….. Eppure, è questo un giorno di vittoria.
Sì, anche questo nostro giorno, oggi, mi piace di pensare, è un giorno di vittoria. La vittoria dei martiri dell’ Osoppo. E della loro Italia che non li dimentica.
Ernesto Galli della Loggia
Dove e quando:
Porzus
10 Febbraio 2013