Cerimonia di commemorazione dell’eccidio di Porzus - Chiarini

Intervento del Prof. Roberto Chiarini
Autorità, Membri della Osoppo e delle Associazioni combattentistiche, congiunti e parenti dei caduti di Porzus, Signore e Signori presenti Mancano cinque giorni al 69.mo anniversario dell’eccidio di Porzus, quando - come tutti voi ben sapete – un commando dei Gap di Udine provvide ad eseguire la sentenza di morte dei 20 uomini della Osoppo lì stanziati, ultimo avamposto delle formazioni partigiane italiane sul confine orientale. Siamo qui a rendere omaggio a quel sacrificio e, come in ogni commemorazione, il primo sentimento che ci assale è il dolore per le giovani vite stroncate. Dobbiamo, però, evitare che la commozione abbia il sopravvento e faccia velo al significato di quel tragico evento, alla portata politica da esso rivestita nel contesto della guerra di liberazione, alla ricaduta più generale che quello scontro tra partigiani ha esercitato nella vita pubblica futura del nostro Paese. Penso che il modo migliore di onorare la memoria dei partigiani osovani trucidati per mano di altri partigiani di colore politico diverso sia parlare il linguaggio della verità politica e storica. Per quanto atroce, il ricordo della resa dei conti consumata alle Malghe di Porzus non si può ridurre alla sola dimensione del lutto e del dolore arrecati ai congiunti, agli amici, all’intera comunità di chi quelle vittime conosceva ed apprezzava o anche a quanti gli alti ideali da cui erano animati condivideva e condivide. L’eccidio del 7 febbraio 1945 non fu né occasionale né frutto dell’iniziativa estemporanea di singoli, come del resto sia le successive risultanze processuali che le stesse ammissioni di chi sino all’ultimo ha tentato di negare l'evidenza comproveranno. Fu viceversa la messa in opera di un preciso piano teso a liquidare una presenza nel campo resistenziale giudicata d’impedimento alla realizzazione di un disegno politico avverso. Dicevo del significato dell’eccidio di Porzus. Solo chi è stato o ha voluto essere cieco e sordo ha potuto negare che a guidare la mano dei carnefici sia stato semplicemente la volontà di liberare il campo resistenziale da una componente politica animata da altri ideali. In vero, si contrastavano allora due opposte concezioni della lotta di liberazione. L’una caldeggiava la salvaguardia dell’integrità della patria e insieme coltivava un’idea di democrazia che oggi chiameremmo liberale, non soggetta cioè al dominio di un’ideologia esclusiva o di un partito unico. L’altra subordinava la liberazione del Paese dai nazi-fascisti all’instaurazione di un regime comunista, negatore di qualsiasi pluralismo politico (in nome dell’abolizione dello sfruttamento capitalista) e affossatore di qualsiasi indipendenza nazionale (in nome dell’internazionalismo proletario). Si trattava di un contrasto più o meno latente in tutto il fronte resistenziale ma che sull’estremo confine orientale, con la presenza minacciosa delle formazioni titine, trovava le condizioni di una sua esasperazione. La strage di Porzus riveste quindi un evidente valore paradigmatico del dissidio politico ed ideologico presente in campo partigiano che solo la volontà dei partiti antifascisti di preservare, nell'immediato l’unità del loro schieramento in lotta contro il nazifascismo, nel dopoguerra la tenuta politica del cosiddetto “arco costituzionale”, esigeva. Paradigmatico dello scontro che, sottotraccia, scuoteva il partigianato italiano, l’eccidio cui rendiamo memoria oggi lo è altrettanto sul piano continentale. L’opposta idea di antifascismo che animava la componente comunista dalle altre verteva sul valore da attribuire alla lotta di liberazione. Per i democratici senz’altro aggettivo essa doveva rappresentare la finalità - ma anche la fine - della battaglia intrapresa per il ripristino della libertà e dello Stato di diritto. Peri comunisti, viceversa, era la premessa – e la promessa – di un rinnovamento radicale della società in senso anticapitalista e della politica in senso totalitario, ossia in vista della creazione di uno Stato con partito unico. L’antifascismo per questa via si confermava intrinsecamente legato al comunismo. Era anzi la condizione del suo inveramento. Intralciare il secondo significava violare anche il primo. L’accusa rivolta agli osovani di tradimento, di “comportamento equivoco”, addirittura d’intesa col nemico non aveva bisogno, a questo punto, di altro riscontro fattuale se non del sospetto di concepire la lotta di liberazione per quello che per un democratico era: guerra aperta all’occupante tedesco e al fascista collaborazionista. Si motivava cioè in forza dell’adesione ad una diversa concezione della democrazia. A ben guardare, quanto è stato riservato ai partigiani della Osoppo è su scala minore l’equivalente di quanto su scala più ampia è stato inflitto, ad esempio, agli uomini di Mihailovic in Yugoslavia o in Polonia agli ufficiali finiti nelle fosse di Katyn. L’antifascismo di conio comunista serviva nell’immediato da collante dello schieramento antinazista, in prospettiva da fattore unificante del fronte vittorioso nonché da elemento legittimante dell’Unione sovietica sul piano internazionale e del Pci su quello interno. Non si capirebbero altrimenti, se non con l’alto valore simbolico dell’eccidio di Porzus e con la pregnanza politica della resa dei conti lì perpetrata, la rimozione e la manipolazione della verità storica così a lungo fatte gravare su quel tragico evento. Una consegna del silenzio accompagnata dalla plateale distorsione dei fatti (Porzus opera da attribuire ad un “esaltato” oppure da addebitare ai partigiani sloveni o ancora giustificabile come doverosa liquidazione di una formazione connivente col nemico); consegna del silenzio e manipolazione dei fatti che hanno segnato dolorosamente una lunga stagione della vita politica nazionale ricevendo un supporto ora surrettizio ora esplicito anche da parte di molti studiosi. Bastino questi pochi richiami all'influenza che una certa vulgata ha esercitato sul senso comune. Lo storico che ha tracciato le linee guida dell'interpretazione poi invalsa della Lotta di Liberazione, Roberto Battaglia, ha diviso salomonicamente la colpa tra “l’odio … divampato dall’anticomunismo” degli osovani e “l’animosa intolleranza” degli altri. Un grande giornalista e grande pubblicista, peraltro appartenente al mondo azionista, come Giorgio Bocca ha attribuito di fatto la responsabilità dell’accaduto al comandante Bolla. Claudio Pavone, l'autore che ha segnato gli studi sulla Resistenza degli ultimi vent'anni, ha preferito glissare sull’argomento. Altri ancora (Joze Pirjevec) hanno avvalorato la versione della rappresaglia scattata per vendicare una precedente presunta uccisione di garibaldini, per non dire di chi (Alessandra Kersevan) ha scaricato la colpa sui servizi segreti americani. Si capisce a questo punto come mettere in chiaro senso politico e portata storica di quell’eccidio significhi non solo ripristinare una verità troppo a lungo negata, non solo ristabilire responsabilità oscurate o letteralmente ribaltate, ma anche, su un piano più generale, liberare il dibattito politico del Paese da distorsioni e mistificazioni che hanno fatto molto male alla democrazia.
Dove e quando:
Faedis
2 Febbraio 2014