10 FEBBRAIO: GIORNO DEL RICORDO

Le foibe sono profonde cavità nel terreno carsico che furono utilizzate dai partigiani dell’esercito di liberazione di Tito per eliminare veri o presunti oppositori politici sul confine orientale nel corso della Seconda guerra mondiale. I numeri sono incerti, ma si stima che furono uccise in questo modo circa 5.000 persone. La prima fase della strage iniziò dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quanto i titini riempirono per un breve periodo il vuoto creato dal collasso dello stato italiano. La seconda fase subito dopo la liberazione del 1945, durante l’occupazione iugoslava della Venezia Giulia. Alla tragedia delle foibe seguì il dramma dell’esodo. Il nuovo regime era determinato a sradicare l’elemento nazionale italiano da tutta questa zona della nuova Iugoslavia: oltre 300.000 italiani furono costretti a lasciare Istria e Dalmazia. Per decenni di questi eventi si è saputo poco o nulla: pesavano l’omertà dei comunisti italiani ma anche la necessità, condivisa da tutte le forze dello schieramento politico, di mantenere buoni rapporti con la vicina Iugoslavia. I profughi furono accusati più o meno velatamente di essere dei fascisti e relegati ai margini della vita pubblica del paese. Poi con il tempo il clima è cambiato. Il collasso della Iugoslavia e la conclusone della guerra fredda hanno permesso di guardare con più serenità agli eventi. Nel 2000, dopo anni di lavoro, una commissione storica italoslovena ha approvato all’unanimità un’ampia relazione sui rapporti tra i due paesi, nella quale la tragedia delle foibe veniva ricondotta alla sovrapposizione di due fenomeni. Il primo era la resa dei conti per la violenza fascista e i traumi della guerra, che fin dall’occupazione tedesca aveva raggiunto nel paese livelli di violenza altrove impensabili. Il secondo era il progetto politico preordinato a eliminare non solo fascisti ed ex fascisti, ma tutti gli oppositori dell’avvento del regime comunista e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato iugoslavo. “L’impulso primo della repressione” concludeva la relazione “partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani”. Fenomeni simili si verificarono in tutti i territori dove prese il potere il movimento comunista iugoslavo, in una guerra civile che lasciò sul campo decine di migliaia di persone. Inserito in un contesto più ampio, l’esodo ci appare oggi come un capitolo dello scontro tra nazionalità che insanguinò l’Europa fin dal diciannovesimo secolo. Alla fine della Seconda guerra mondiale furono milioni le persone trasferite con la forza da un territorio all’altro per sbarazzarsi di gruppi etnici e nazionali ritenuti ostili. Oltre 10 milioni di tedeschi furono espulsi da vari paesi dell’Europa orientale dove vivevano spesso da generazioni. Tre milioni e mezzo di tedeschi furono cacciati dalla sola Cecoslovacchia: almeno in 20.000 furono uccisi o morirono di stenti nel corso dei trasferimenti. Oltre un milione di polacchi nello stesso periodo dovettero lasciare le loro case in seguito all’annessione della Polonia orientale da parte dell’Unione Sovietica. Nel 2004 il parlamento italiano ha istituito per il 10 febbraio di ogni anno un “Giorno del ricordo” con lo scopo di conservare la memoria di questi eventi. È difficile dire se si tratti dello strumento più adatto allo scopo. La memoria infatti è uno strumento delicato. In primo luogo, nessuno garantisce che ricordare un evento significhi comprenderlo, anzi. Le celebrazioni infatti impongono sempre una semplificazione degli eventi, e quindi una loro banalizzazione. In secondo luogo, inevitabilmente la memoria viene continuamente rimodulata a partire dalle istanze del presente, e la sua istituzionalizzazione la rende facilmente ostaggio della politica. Solo lo studio rigoroso e critico della storia permette che nel tempo cresca una solida consapevolezza del passato. Non ci sono scorciatoie. Tommaso Piffer
Dove e quando:
10 febbraio 2020